Isquat al Nizam, ai confini del regime
“Per poter sopportare (…) queste
immagini (…) è necessario che “il tuo
cuore diventi di pietra (…) e il tuo
occhio un apparato fotografico”
Bernard Mark
“Fotgrafieren verboten! Proibito entrare! Si sparerà senza preavviso! Proibito scattare foto!”: questo l’ avviso esposto nelle immediate vicinanze del campo di concentramento di Natzweiller su circolare di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, in data 2 Febbraio del 1943.
Di certo questo divieto fu rispettato da molti durante quell’epoca tranne che per un prigioniero anonimo ebreo il quale, come ricorda il filosofo G.Didi-Hubermann, decise di rubare una macchina fotografica per immortalare cumuli di cadaveri appena gassati e delle donne nude in attesa di morire. Presto quelle immagini contribuirono a svelare i meccanismi di morte che regolavano i campi di sterminio nazisti.
A circa 60 anni da quell’evento, La Primavera Araba dimostra come l’aumento di foto e video amatoriali che rivelano l’uso della violenza da parte degli eserciti nazionali nei confronti dei civili, sia fonte di crescente preoccupazione da parte della maggioranza dei Governi mediorientali.
Prodotte da apparati sempre più “piccoli e leggeri”, le foto viaggiano nella rete in maniera epidemica giungendo, in pochi minuti, nelle redazioni dei media internazionali potenziando così la coscienza collettiva intorno ai fatti. Il diffondersi dell’uso allargato dei telefonini e videocamere auspica, come ci ricorda il regista Antonio Martino, quello che Cesare Zavattini aveva intravisto nella futura “democratizzazione dei mezzi audiovisivi”.
È proprio grazie all’uso “collettivo” delle immagini, che il documentario Isquat al Nizam di Antonio Martino è zavattinianamente un “racconto oggettivo” sulla primavera araba in Siria e sul modo con il quale il popolo siriano si organizza pacificamente per contrastare la feroce dittatura di Assad: dalle nascenti manifestazioni non-violente alle prime repressioni, dall’esodo dei rifugiati in terra turca al crescente numero di disertori dell’esercito ufficiale.
La storia intreccia in maniera esaustiva le interviste – testimonianze dei protagonisti presenti sul confine turco-siriano – e le immagini “amatoriali” giunte “da cellulare a cellulare via bluethoot” che rivelano numerosi fatti, come l’uso costante della tortura da parte dell’esercito per dissolvere qualsiasi forma di opposizione al regime.
Tra i numerosi gruppi dissidenti operanti nell’ambito della controinformazione, il regista sceglie di seguire quello di Freedom 4567, composto da una decina di giovani penetrati illegalmente in Turchia per scampare al controllo delle forze di sicurezza ed organizzare la enorme mole di materiale digitale da pubblicare in internet.
Le immagini “rubate” rappresentano l’unico modo per stabilire un dialogo tra le diverse zone geografiche di una paese sotto assedio e il confine turco-siriano, quest’ultimo laboratorio di interscambio tra chi fugge dall’oppressione e chi decide di prestare soccorso.
Il confine, protagonista del film assieme alle immagini amatoriali, è il luogo dal quale è possibile organizzare le forze, per ricostruire un paese libero; come testimonia l’ex esponente dell’esercito siriano Riad Al – Asaad, i cui racconti diventano un appello internazionale rivolto a tutti quei paesi amici affinché ci sia un aiuto alla formazione dell’esercito di liberazione siriana: speranza per l’affrancamento definitivo del paese dalla dittatura.
Il documentario di Antonio Martino contribuisce alla creazione di un discorso sul potere disvelatore delle immagini che genera un nuovo modo di costruire le simultanee identità di un mondo vasto come quello arabo, che non vuole più essere ai margini né sottomesso a una globalizzazione mediatica e culturale. Un uomo armato di telefonino non fa che contribuire alla creazione di un’ “immagine-costruzione” in grado di sintetizzare gli eventi, delineando in maniera sempre più netta i contorni di un immaginario “arabo” già in via di creazione da svariati anni (Panhai docet).
I siriani dissidenti, come i tunisini, gli egiziani o gli ebrei dei campi di concentramento, hanno avuto e continuano ad avere l’arduo compito di divenire – seppur per un istante – fotografi o cineasti, per costruire un’Etica dell’immagine che riveli alle generazioni presenti e future l’autentico volto della Memoria.
Alessandro Focareta