Recensione di Chiara Seghetto
Nel 1828 in una piazza di Norimberga appare dal nulla un giovane che sa solo pronunciare il suo nome: Kaspar Hauser. Cresciuto a pane e acqua nel buio di una cella, epilettico, non conosce i bei modi del vivere borghese dell’epoca. Prontamente accudito, educato, “civilizzato”, la società che lo ha accolto ipotizza sul suo conto: è un santo, demente, impostore o rampollo principe del granducato di Baden? Solo Kaspar può sapere chi è. Ma quando decide di raccontarlo, scrivendo una autobiografia, viene uccisio.
“Ignota la sua origine, misteriosa la sua morte”; così indica la sua lapide e così irrisolto rimane il suo enigma.
Svariati scrittori, intellettuali, nel corso del tempo hanno scritto, raccontato questo mistero. Alcuni registi ne hann fatto un film. Tra questi Davide Manuli.
La leggenda di Kaspar Hauser però, non è la riscostruzione storica dell’accaduto alla Werner Herzog (tanto ben fatto quanto sterile), ma la sua coraggiosa trasposzione nel contemporaneo.
In un anno Zero, in un isola X, da un mare Y giunge il corpo galleggiante di Kaspar (interpretato da Silvia Calderoni). Biondo, a torso nudo con il suo nome tautato sul petto, indossa cuffie da dj e tuta Adidas. Viene soccorso dallo sceriffo del luogo (Vincent Gallo) che vede in lui il nuovo re. Lo prende in custodia, lo educa e gli insegna il mestiere del dj.
Gli altri abitanti dell’isola rimangono al contempo affascinati e perplessi dalla presenza dell’estraneo ragazzo. Il Prete (Fabrizio Gifuni) lo chiama Santo e si prostra ai suoi piedi mentre dorme. Gli sciorina addosso un entusiasmante monologo sull’esitenza di Dio (scritto appositamente da Giuseppe Genna) e lo abbandona al suo destino. La Veggente (Elisa Sednaoui) ne è incuriosita, lo osserva e dolcemente lo accarezza. Il Servo Drago (Marco Lampis) , in quanto servo , rimane indifferente, mentre la Ganduchessa (Claudia Gerini) diffidente e timorosa nell’esser detronizzata dal nuovo arrivato, ingaggia il suo amante Puscher (ancora Vincent Gallo) e lo fa uccidere.
Lo scenario è il desolante e ruvido paesaggio sardo che i personaggi-archetipi agiscono animati da un non –sense lisergico: un po’ Teatro dell’assurdo un po’ delirio da post-rave. Gesti inconsulti, ripetizioni e quasi totale abbandono del linguaggio logico consequenziale, caratterizzano la non comunicazione stagnante tra loro. Kaspar si esprime principalemnte con un “unz unz, yeah yeah…”, mentre lo Sceriffo con un “yeah yeah” e qualche vaga considerazione sull’esistenza. Il Prete soliloquia, la Granduchessa urla e il Puscher spaccia.
Le diverse parlate, dal pugliese, al texano, all’italiano, e i diversi stili di abbigliamento, dal fetish-barocco al cowboy d’America, denotano ancor più quel senso di caos da prossima Babilonia. C’è una tensione in quell’aria tersa e contornata dal bianco nero folgorante della pellicola…una tensione che la musica originale di Vitalic (ritmo onnipresente) carica all’ennesima potenza. E vien voglia di ballare.
In tutto ciò, cosa rimane di quell’enigma? O peggio ancora ci si potrebbe chiedere: cosa ha voluto dire il regista con questo “assurdo” film? Ecco, io sconsiglio tale incauto maneggio del “senso”. Qui siamo di fronte ad un detonatore, ad un impasto misticoalchemico pronto ad esplodere.
Davide Manuli è uno sperimentatore, non solo un “semplice” regista. Il suo creare, trasmutare, non è codificabile in uno schema predefinito, ma fluttua e s’incaglia nel sensoriale. I suoi film non ingozzano lo spettatore d’immagini dolciastre e tiepide e non intendono compiacere l’aspettativa dello spettatore.
Molto più onestamente Manuli lascia intuire. E si può intuire che La leggenda di Kasapr Hauser, con la sua fantasiosa eversività, crea un corto cirucito temporale dove la vecchia storia diventa attuale.
Quella diffidenza ottocentesca verso lo “straniero”, il “diverso” è la stessa di oggi. Crea le stesse mutilanti reazioni: o si riconosce il diverso come una marionetta o lo si riconduce a puro riflesso dell’Occidente. In ogni caso, lo si priva della sua storia. Perchè comprenderlo sarebbe troppo facile.
Manuli da bravo alchimista, usa tutti gli ingredienti a sua disposizione per farci intuire questo ed altro ancora; simbolismo, surrealismo, non-sense, un po’ di western, un po’ di fattanza e tanta electronic miusic. E’ il suo magicomondo e a noi non resta che scivolarci dentro per lasciarci meravigliare.
Ripeto, questo è un film coraggioso e non a caso di difficile distribuzione. Nonostante ciò ha vinto ben quattro premi (41° International Film Festival Rotterdam – Official Selection, 5° Arizona Underground Film Festival – Best Film, 18° Geneve International Festival – Jury Mention, 5° San Francisco Independent Film Festival – Jury Award) e partecipato ad una quarantina di festival.
“Di questo film ci si ricorderà” (Davide Manuli)
Buona danza.