Esistono pregiudizi che si insinuano perfino tra i pensieri di chi ogni giorno porta avanti la battaglia contro le discriminazioni, che proprio del pregiudizio rappresentano molto spesso l’esito naturale. Schemi interpretativi dati per scontati, che producono aberrazioni nella nostra idea del mondo e ci condannano inconsapevoli ad analisi parziali, e perciò all’inevitabile sabotaggio delle nostre battaglie di civiltà. Uno di questi pregiudizi riguarda indubbiamente la cultura africana, dal nostro punto di vista omofoba per antonomasia.
E c’è molto di vero in questa “diagnosi”, anzi quasi tutto: che l’avversione alle persone gay, lesbiche e trans abbia raggiunto “livelli pericolosi” nel continente nero è una realtà evidente, denunciata dettagliatamente pochi mesi fa da un rapporto di Amnesty International. Secondo l’organizzazione per i diritti umani ancora troppi stati africani considerano l’omosessualità come un crimine e tollerano, se non addirittura incoraggiano, la discriminazione contro gli omosessuali. E infatti l’omosessualità è un reato in 38 Paesi africani, punibile anche con la pena capitale in Mauritania, Sudan, nord della Nigeria e sud della Somalia. Perfino in Sudafrica, uno dei pochi stati in controtendenza dove sono permessi i matrimoni tra persone dello stesso sesso e dove nel 2012 si è tenuta addirittura l’elezione di Mister Gay World, l’anno scorso si sono contati almeno 7 omicidi omofobi in pochi mesi.
L’odio verso gli omosessuali, insomma, in Africa è un fenomeno decisamente reale. Su di esso pesa però il pregiudizio del nostro sguardo di occidentali, del terzomondismo con cui camuffiamo il mai superato istinto coloniale, convinti come siamo di essere noi quelli evoluti chiamati a insegnare la civiltà ai popoli tribali. Ed è qui che l’analisi si fa bislacca, pregiudiziale, e sorvola ad esempio sul fatto che molte delle leggi omofobe in vigore negli Stati africani rappresentano in realtà l’eredità dell’epoca coloniale, cioè la traccia – se non la firma – del dominio dell’Occidente su quelle terre.
Ma non c’è solo il colonialismo dei secoli passati: attraverso “God loves Uganda” Roger Ross Williams ci consegna il racconto di un altro colonialismo, attualissimo e in rapidissima espansione, che muove dalle coste dell’America settentrionale per esportare dall’altra parte dell’Oceano il ricatto di un’uscita dalla povertà per entrare in un mondo normato da Dio. Il Dio è quello della Chiesa evangelica americana, l’estremo più a destra nella gamma dei cristianesimi che si affacciano ai palazzi della politica.
Osservare da vicino l’operato di questi evangelizzatori missionari e del sistema politico che apre loro le porte a suon di dollari, vuol dire inevitabilmente resettare lo sguardo su tutto ciò che dell’Africa si credeva di sapere, e allo stesso tempo lasciar spazio al dubbio – e subito dopo alla consapevolezza – che l’inciviltà che in Africa tentiamo di combattere è in realtà uno dei prodotti di esportazione che l’Occidente più abbondantemente destina a quella terra.
Questo vale in particolare per l’Uganda, il Paese su cui Roger Ross Williams focalizza lo sguardo, quello dove nel 2011 trovò la morte a colpi di bastone David Kato, insegnante e attivista omosessuale. Dell’assassinio di Kato si parlò in tutto il mondo, come pure in tutto il mondo, alcuni mesi prima, era giunta la notizia “shock” di un tabloid ugandese che aveva pubblicato i nomi e le fotografie di 100 attivisti omosessuali con in testa un titolo inequivocabile: “Hang them”, impiccateli. E certo non c’è sguardo laterale che possa mitigare la mostruosità di questi fatti, però c’è un contesto ignoto, per molti del tutto inesplorato, che di quei fatti è in grado di dirci molto di più. “God loves Uganda”, da questo punto di vista, è una testimonianza di inestimabile valore, una chiave di lettura imprescindibile per interpretare non solo quel passato ma anche i titoli di cronaca estera che in questi giorni ci riferiscono di una nuova ondata di omofobia di stato, in Uganda come in Nigeria.
Non solo: è facendo tesoro di questa prospettiva che forse potremo trovare un’interpretazione nuova dei numeri che descrivono i flussi migratori dall’Africa verso le nostre coste. Perché all’origine di quelle fughe ci sono sicuramente la povertà e le guerre, ma ci sono anche i regimi liberticidi, le leggi che perseguitano gli omosessuali, che umiliano le donne o che rimuovono ogni ostacolo al diffondersi dell’Aids. E c’è soprattutto chi, questi flagelli, lavora quotidianamente per irrobustirli, con indosso i panni di un occidentale che racconta di essere giunto in Africa per far conoscere la Parola di Dio.