FATAL ASSISTANCE di Raoul Peck (Recensione di Pierluigi Musarò)

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Da Haiti a Lampedusa: retoriche e realtà dell’umanitarismo

Il regista haitiano Raoul Peck ci accompagna in un viaggio, lungo due anni, che si snoda all’interno dei colossali sforzi di ricostruzione nel post-terremoto di Haiti, denunciando le contraddizioni e i paradossi che si celano dietro l’emergenza umanitaria e, spesso, nella stessa cooperazione internazionale allo sviluppo.

Scandito con tappe diacroniche precise e puntellato da personaggi centrali nella scena politica ed economica internazionale, il documentario parte dal 2010, dal momento in cui un violento terremoto ha distrutto Haiti, lasciando la popolazione in ginocchio. E da qui snoda il suo racconto, che diventa presto un atto d’accusa radicale, attraverso cui il regista si chiede che fine abbiano fatto i miliardi di dollari di aiuti stranieri raccolti (o solo promessi?) per il processo di ricostruzione.

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Di fornte alle immagini della popolazione che vive ancora nello squallore e nella miseria, il film svela i retroscena del post-disastro: dall’idealismo della comunità internazionale al denaro scomparso. Sino a denunciare apertamente come le condizioni degli haitiani siano addirittura peggiorate sempre più: i prezzi dei prodotti alimentari e dei generi di prima necessità sono aumentati esponenzialmente, i servizi igienico-sanitari sono allo sbando e le risorse di acqua potabile sono diminuite.

E’ questo l’impatto degli aiuti umanitari e di sviluppo a livello mondiale? Si gestisce così l’emergenza? Haiti è un’eccezione oppure l’emblema di un modello fallimentare?

Alle riflessioni inquietanti proposte dal film, ne aggiungo qualcuna personale, utile come spunto per una visione che parte da Haiti e giunge sino a noi: spettatori dello spettacolo del dolore proposto dai media di fronte alle catastrofi, donatori di qualche euro per le vittime lontane, sudditi di uno stato che maschera come “intervento umanitario” la cura dei propri interessi, cittadini indifferenti o commossi di fronte alle migliaia di morti che le “tragedie umanitarie” ci presentano nel Mediterraneo.

Fatal Assistance è un punto di vista provocatorio sulle politiche di aiuto e le prassi messe in atto ad Haiti, ma si inserisce in un filone di critica più ampia, teso a denunciare questo nostro vivere in un’epoca di “emergenze umanitarie”, che vanno dall’aiuto ai bambini poveri, alla guerra in Libia, sino ai respingimenti di Lampedusa.

Non è difficle vedere i legami tra questi diversi avvenimenti, basta inquadrarli nel più ampio contesto dello “spazio umanitario” – inteso come un imperativo morale universale ad agire direttamente in aiuto dei più vulnerabili, anche se distanti e sconosciuti – e focalizzare l’attenzione sulla “narrazione umanitaria”, ovvero sulla struttura comunicativa che – attraverso un vasto repertorio di generi popolari che vanno dalle campagne di fundraising delle organizzazioni non governative (ONG) alle notizie sui media – diffonde questo imperativo a soccorrere gli altri.

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Se analizzati nella cornice interpretativa della mediatizzazione dell’umanitarismo, appare chiaro che gli sbarchi dei migranti a Lampedusa e le relative “reazioni umanitarie” non rappresentano un fatto inedito. Sin dai primi rivolgimenti politici nell’area nord africana il fenomeno migratorio che ha investito l’Italia è stato caratterizzato da toni apocalittici e allarmistici, attraverso cui il governo annunciava, con Maroni «il rischio di una vera e propria emergenza umanitaria, con l’arrivo di centinaia di persone sulle coste italiane in fuga dai paesi del Maghreb», a cui seguivano procedure legislative in chiave securitaria piuttosto che umanitaria. Le stesse “missioni militari umanitarie” non costituiscono una novità: dal 1999, quando i bombardamenti Nato in Kosovo furono descritti dal primo ministro britannico come “atto umanitario”, ad oggi, l’azione umanitaria è nei fatti divenuta la modalità prevalente e il frame dominante per gli interventi politici dell’Occidente in situazioni di emergenza in ogni angolo del mondo, indipendentemente dal fatto che si tratti di conflitti armati, disastri naturali, epidemie, carestie o altro. Si aggiunga a ciò il contributo delle ONG che, con le loro strategie di marketing e fundraising, hanno contribuito a che l’umanitario diventasse il principale produttore e garante simbolico per le rappresentazioni visive della vittima, di cui i media sono i principali fornitori.

A proposito di Haiti, guardate questo spot di raccolta fondi:

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e comparatelo magari con quelli realizzati per raccogliere fondi per L’Aquila post terremoto:

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Salta subito all’attenzione il diverso trattamento riservato alla rappresentazione delle “vittime”: corpi disperati e passivi che invocano aiuto in un caso, eroi pronti a ricominciare con le proprie forze nell’altro! Le immagini hanno giocato un ruolo chiave nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica alle disgrazie altrui. La fotografia e il video, amplificati dalla crescente penetrazione dei mass media hanno ampliato il nostro spazio di azione quotidiano, la consapevolezza di vivere in un mondo estremamente diseguale e l’urgenza morale di agire. La mediatizzazione della sofferenza messa in atto dalle organizzazioni impegnate nella solidarietà internazionale ha contribuito molto alla creazione di una coscienza dei diritti umani, favorendo l’empatia e la solidarietà tra lo spettatore e la vittima. Al contempo, questi stessi attori e con gli stessi mezzi hanno contribuito a creare una galleria di stereotipi e pregiudizi che hanno finito per aumentare, piuttosto che accorciare, la distanza (strutturalmente gerarchica) tra “noi” e “loro”.

Promuovendo i diritti umani attraverso l’appello alla benevolenza capitalista, l’umanitarismo come aiuto ha rimpiazzato la visione di emancipazione politica, volta a sostituire l’ingiustizia con un nuovo ordine. Sposando il frame dell’emergenza, utilizzato dagli stessi governi per legittimare gli interventi armati, il movimento umanitario ha abdicato all’ottimismo dello sviluppo sino a diventare quello che Fassin denomina un «Nongovernmental Government»: un governo che definisce se stesso attraverso l’introduzione della morale nella politica.

Da Haiti a L’Aquila a Lampedusa dunque, per capire la contraddizione profonda tra retoriche e realtà dell’umanitarismo, un linguaggio che lega inestricabilmente valori ed emozioni, funzionando come un dispositivo volto a definire e legittimare discorsi e pratiche di governo degli esseri umani. Tanto che si tratti di “povere vittime” da aiutare in luoghi lontani come Haiti, quanto che si tratti di “irregolari”, “clandestini” o “criminali” che bussano alle porte della fortezza Europa, pronta a respingerli, in quanto indesiderati e non meritevoli di essere accolti.

Pierluigi Musarò

(Presidente Associazione YODA di Bologna, docente di Sociologia & Comunicazione presso l’Università di Bologna. Research Fellow, Institute of Public Knowledge presso New York University)