Tanti film in uno, ma non perché ce ne sono tanti dentro.
György Pálfi ha navigato attraverso un oceano di 116 anni di storia del cinema e 450 film aiutato da una barca piccola – i soldi per la postproduzione – e senza chiedere il permesso agli aventi diritto. La sua avventura, allo stato attuale sullo schermo “for educational purpose only”, ha qualcosa di romantico e di ribelle insieme e ci sembra la variante cinefila di un impresa alla Alain Robert. Il regista ungherese scala la sua personale Torre Eiffel e lascia a noi, comodi in poltrona, di immaginare cosa lo spinga nell’impresa. Per qualcuno sarà senza dubbio il “vi mostro quanto sono bravo”, mentre ad altri verrà in mente che in fondo il monumento sul quale resta meravigliosamente in bilico Pálfi per 85 minuti è un bene di tutti, che il cinema e la torre parigina hanno quasi la stessa età e che non bisogna lasciarli arrugginire.
La crisi del cinema ungherese che il regista ha chiamato in causa, nelle interviste e conferenze che hanno accompagnato la proiezione a Cannes nel 2012 e al Torino Film Festival lo scorso anno, è uno spicchio, se non un riflesso, di una crisi economica e culturale che riguarda anche noi. Ma per Final Cut – Ladies & Gentlemen la denuncia di un sistema di produzione in crisi sembra essere solo lo spunto che precede l’opera, e anche l’etichetta di recycle movie non dice tutta la verità. L’impiego dei materiali è riciclato ma non il loro approvvigionamento: il regista non assembla scarti di riprese, né ha comprato vecchie pellicole scadute da qualche magazzino e per poi girare a costo zero con la cinepresa trovata nella soffitta del nonno. È proprio di furto che si tratta, ma il fine, si vedrà, potrebbe giustificare i mezzi.
Le possibilità dell’arte del montaggio in sé consentono a Final Cut di raccontare una propria storia – quella tra un uomo e una donna che si incontrano, scontrano, perdono e riprendono – attraverso parti di altri film. Il montaggio è stato il primo trucco cinematografico, il primo raggiro ed effetto speciale: nel 1896 Méliès convinse gli spettatori per un attimo che una dama seduta su una sedia potesse all’improvviso sparire sotto a un lenzuolo ed essere sostituita da uno scheletro. Ora che fa parte del linguaggio del cinema ci accorgiamo del potere del montaggio solo quando è portato all’estremo. Qui il trucco è trasparente e sorregge il film, permette di farci apprezzare sia la destrezza di mano che la dama sul palco, senza limitarci allo stupore e alla contemplazione dello scheletro, il montaggio è così evidente che finiamo per dimenticarlo e ci ancoriamo alla storia. E’ il pubblico a farlo funzionare, il naturale desiderio dei nostri occhi di completare un’azione viene stimolato per tutto il film e fa procedere una storia d’amore che in fondo conosciamo già ma che non ci stanchiamo di ascoltare.
Il cinema ha rubato la vita al mondo e ha trasformato gli attori in vampiri dall’inizio della propria storia, ben prima che il nostro regista rubasse pezzi di film altrui, e la clip scelta per il finale ci ricorda questa pulsione fondamentale. Il cinema di adesso però sta cambiando ed è paradossalmente l’apertura del film a darci un indizio su come tutto potrebbe finire, quegli occhi digitali di Jake reincarnato in un Na’vi provengono dal film (Avatar, James Cameron 2009) più recente tra quelli utilizzati dal regista. Ecco, una parte cinema, grande in termini di economia e produzione, ha apparentemente più fame di potenza di calcolo che di realtà, preferisce ricreare, imitare, rielaborare e, solo quando siamo molto fortunati, immaginare. Non sappiamo se questo lo rende più povero, ma ci sembra che rubare a quest’ultima parte di cinema non sia poi così grave. Final Cut – Ladies & Gentlemen a questo punto assomiglia più al furto di un ladro gentiluomo e prestigiatore, che riesce nello stesso tempo a restituirci qualcosa che ci è stato sottratto, a stupirci con il montaggio – il potere magico del cinema per eccellenza -, e che nel mezzo ci racconta (anche) una storia d’amore.