“Dopo tante obblazioni recate alle Muse piacevoli, sagrificate alle Muse severe. Lasciate l’occupazione delle belle lettere, per applicarvi alle buone lettere. Discendete dalla vetta del Parnaso, […] Leggete con attenzione ed interesse nei pubblici fogli gli avvenimenti del tempo nostro giacché poco gioverà a voi e ai vostri simili che abbiate trovato la vera forma del peplo di Ecuba […] quando neppur sappiate qual è la situazione dei vostri contemporanei e le operazioni dei diversi governi.”
Lettera di Carlo Antici al nipote Giacomo Leopardi
Sintesi panoramica dell’underground musicale italiano, distillata in sessantasette minuti, tre città e tre band, Semitoni è allo stesso tempo un bel documentario e un buon documentario: bello perché formalmente bello, e buono perché consapevole. Di bella forma si tratta perché è quella adatta al proprio scopo. Spesso la produzione video indipendente e a basso budget, complice la rivoluzione digitale che ha messo nelle mani di molti quegli strumenti capaci di filmare a livelli accettabili che sono le DSLR, ci ha abituato a un’immagine larga e sottile.
E’ la prassi che condiziona la teoria: per imitare il mezzo cinematografico si allargano le inquadrature come gli schermi delle tv. Contemporaneamente si assottiglia sempre più la messa a fuoco – ancora, come si assottigliano le tv – perché lo “sfocato dietro stacca il soggetto dallo sfondo” ed è cool, mentre la profondità di campo è un po’ passata di moda, ingombrante quasi quanto il vecchio tubo catodico.
Tutto questo non vale per Semitoni che se sceglie un’immagine con aspect ratio di 2,39:1 – più larga del 16:9 convenzionale – non sembra farlo per moda e giustifica a nostro avviso la larghezza del frame due volte: sia come proporzione perfetta per inquadrare tre persone insieme e presentarcele come band, sia come misura adatta ad abbracciare e indagare il panorama, dietro e intorno al raccontare dei singoli. Il background deve essere necessariamente tenuto a fuoco insieme a chi parla, per afferrarne le ragioni, sia esso una città desolata o una libreria di famiglia. Così ci troviamo di fronte un’immagine che è sì larga ma al contempo profonda, e mentre si aprono le danze sulle note di Unknown Mission degli Eels On Heels e scorrono i titoli di testa, capiamo da subito che Semitoni la missione da portare a termine ce l’ha ben chiara.
Dalla consapevolezza dei mezzi a quella di ciò che si vuole raccontare, tutto passa per un panorama musicale e territoriale, che è stato carotato dai registi Ricchetti e Ebrahimi in tre punti non casuali, Milano, Bologna e Trani, campionato e distribuito sulla timeline di montaggio in maniera estremante accurata per mettere a confronto e in prospettiva la visione di band molto diverse non solo per genere musicale, ma anche e forse soprattutto per intenti ed età. Da qui la bontà dell’opera e dell’operazione, il suo essere sguardo sceso a valle e calato in ciò che succede, nell’attuale. Questo paradossalmente vale ancora di più quando le parole degli intervistati si fanno vaghe o addirittura contradditorie. Nella posizione degli Eels on Heels sul perché non ci siano riferimenti alla politica o alla realtà nei loro brani, nelle riflessioni di His Clancyness su Bologna (alla fine è la città giusta o quella sbagliata per fare musica?) e nell’eterno confronto – che ci seppellirà – con Parigi fatto da Fabio Ferrario della Fuzz Orchestra c’è la coscienza confusa di un’intera generazione di musicisti.
Semitoni ci dice e mostra che lo stato dell’arte e il panorama sono questi, nel qui e ora dell’underground italiano: non abbellisce, non uniforma e non teorizza. Nel mezzo restano tre band di valore musicale assoluto. Se per qualcuno si suona per evadere con il pensiero e per qualcun altro si suona per viaggiare, tornare e comporre daccapo, su una nota finale si trova l’accordo che funziona per tutti: si suona semplicemente perché è impossibile non farlo.
Serata di proiezione > Lunedì 24 novembre 2014