Matt Van Dyke è un ventiseienne fresco di laurea in scienze del Medio Oriente alla George Town University quando all’improvviso si accorge di non sapere nulla del suo campo di studi fuori dal confine dei libri. Deciso ad ampliare la sua mappa reale parte quindi per un lungo corso intensivo di virilità in quelle terre, armato di moto e videocamera. Cerca l’avventura per poterla rivendicare, come nei filmati di Alby Mengels – star australiana degli anni ’70 e ’80 – e inizia con il mettere in scena la sua stessa ignoranza, attraverso un filmare fine a se stesso che non è capire – scambiando ad esempio per segno di progresso culturale l’abitudine di tenersi per mano degli uomini marocchini -. Il primo filmare di Matt è così autodiretto, pilota riprese e impennate in moto per creare l’immagine di un’esistenza degna di essere filmata, quella dei film, il ricordo di un Lawrence d’Arabia visto al college.
Un incidente in moto non gli farà cambiare approccio, e non appena si rinsalda la clavicola Matt rincara la dose in kilometri da percorrere. Tuttavia è la voglia di un’adrenalina maggiore che lo mette sulla rotta che lo porta a farsi le prime vere domande sulla natura del suo viaggio filmato. Comincia a fare il corrispondente di guerra per un giornale di Baltimora, affiancando i soldati americani nei conflitti in Iraq e in Afghanistan, e ritrova nel desiderio dei soldati di definire la propria immagine a mezzo video la sua stessa spinta a costruire per sé un’identità migliore e amplificata. Così si cambia il nome in Max Hunter, e riparte ancora più spericolato di prima fino all’incontro che gli cambierà la vita.
Non spoileriamo oltre, anche perché il film inizia qui, dove il documentario in qualche modo finisce. Max Hunter entrerà in Libano appena prima della Primavera Araba e ci rientrerà poco dopo l’inizio della guerra civile per rimanerci fino alla fine. In Libano non punterà più soltanto la videocamera di fronte a sé, e si troverà a interrogarsi sul senso di tutto il suo agire, che partendo dallo spirito d’avventura si è mosso verso la ricerca di un’identità precisa, passando per il rapporto con i propri disturbi ossessivi compulsivi e conquistando infine la dimensione dell’amicizia con un gruppo di persone, mai sperimentata da Matt/Max durante l’adolescenza.
Il documentario-thriller del bravo Marshall Curry si ritaglia un posto nella classifica alta degli appartenenti al genere, perché riesce a comunicare il proprio punto di vista senza premere mai per una lettura univoca, sia nelle selezione del girato di Matt che nelle domande poste al protagonista alla fine dei fatti narrati – ma snocciolate nei punti chiave del film – e ci permette di indossare i panni di Matt con mano leggera e sempre in soggettiva, cogliendo gli elementi universali nascosti in un’esperienza particolare ma attuale: quella di un Candido in terra straniera che scopre presto di non abitare nel migliore dei mondi possibili ma anche che ogni terra straniera può diventare la propria se in quella terra si coltiva qualcosa di resistente. Il regista mette anche molto bene in scena, nei momenti di confessione di Matt alla videocamera, lo slittamento possibile di una coscienza, che di girato in girato si trova a trasformare lentamente ma inesorabilmente l’approccio al mondo che la circonda. Così possiamo ora provare a immaginare come certe notizie di inspiegabili trasformazioni di studenti modello in guerriglieri al servizio di cause o estremismi religiosi a noi incompresi, notizie spogliate di una storia e buttate nel calderone di un tema delicato e complesso, subito cestinate per far spazio ad altre identiche, siano in realtà quesiti ai quali è necessario dare spazio e tempo per sperare di ottenere risposta. Matt non riesce ancora a darla, la risposta, dopo 5 anni e 52.000 km, mentre il regista Marshall Curry alla fine degli 82 minuti di Point and Shoot evita accuratamente di darne una in sua vece. La risposta è un dovere tutto nostro.