CONCERNING VIOLENCE: un film sul colonialismo di ieri e l’oppressione di oggi
Göran Hugo Olsson, che aveva già riscosso successo con The Black Power Mixtape 1967–1975 (2011) – un racconto dall’interno del movimento americano delle Black Panther – torna a denunciare lo sfruttamento e l’oppressione. E lo fa inquadrando lo sguardo dello spettatore, questa volta, sulla violenza dell’apartheid e i processi di emancipazione politica nera.
Come nel precedente film, in Concerning Violence Olsson recupera e riassembla materiali d’archivio inediti: filmati girati dalla tv pubblica svedese tra gli anni ’60 e ’70 (con un breve inserto dell’87 in Burkina Faso), per mostrare i momenti chiave delle lotte di liberazione, così come i meccanismi di decolonizzazione iniziati 50 anni or sono.
Un repertorio iconico, crudo, di una storia sanguinaria: le lotte di liberazione dell’Angola, del Mozambico e della Tanzania, si alternano con la testimonianza di un intellettuale torturato in carcere in Rhodesia/Zimbabwe e le dichiarazioni razziste di un colono bianco, le scene di vita quotidiana dei missionari cattolici svedesi e le immagini atroci di distruzione e mutilazione nelle guerre, la repressione di uno sciopero in Liberia e le interviste politiche d’archivio. Materiali provenienti da contesti diversi, chiaramente accomunati dal sottotitolo: Nove scene di autodifesa antimperialista.
Le immagini sono corredate con i testi tratti dall’opera di Frantz Fanon, I dannati della terra, pubblicata nel 1961, e con immediata e profonda influenza nelle lotte anticoloniali. Medico, psichiatra, filosofo, militante organico e, soprattutto, anticolonialista radicale, Fanon critica il modello europeo di espansione nei paesi del terzo mondo, responsabile di crimini a livello planetario, di odio razziale, sfruttamento e genocidio. I dannati della terra è stato uno dei testi più popolari non solo nei paesi coloniali, dove divenne uno dei testi di riferimento per ogni militante impegnato nelle lotte di liberazione nazionale, ma anche all’interno degli Stati Uniti, dove si è rivelato una sorta di manuale di formazione rivoluzionaria per gruppi politici radicali come gli attivisti neri del Black Power o i militanti del «Black Panther Party».
Il film è scandito dalla voce profonda della cantante Lauryn Hill – attivista della causa black, femminista e grande fans di Fanon – e vanta una prefazione della studiosa postcoloniale Gayatri Chakravorty Spivak, che non risparmia critiche di genere allo stesso Fanon e, indirettamente, al film.
Con un ritmo intenso, il film solleva questioni sulla violenza e l’oppressione nei rapporti tra Europa e Africa, rivelandosi di grande attualità anche a cinquant’anni dalla pubblicazione del testo di Fanon. Certe immagini lasciano solo intravedere la profondità del testo di Fanon: testimonianze come quelle di Thomas Sankara e Amilcar Cabral evidenziano il potere rivoluzionario della consapevolezza dell’oppressione, sistematicamente perpetuata attraverso le istituzioni internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale in primis) e tramite gli stessi aiuti allo sviluppo che spesso vengono propagandati come doni – ai più appassionati del genere consiglio di recuperare il film di Ken Loach del 1969 su Save the Children, mai proiettato sino al 2011, quando il nuovo direttore della ONG inglese ha deciso di tirarlo fuori dal cassetto!
Altre immagini invitano a leggere Fanon attraverso il presente. Tanto per fare qualche esempio: quanti di noi non hanno pensato a Fanon e al suo «manifesto per la decolonizzazione» mentre le bombe della Nato portavano avanti le “guerre umanitarie” in Iraq, Afghanistan o Libia? Oppure dinanzi allo sfruttamento che le multinazionali occidentali continuano a imporre per l’estrazione dei metalli preziosi, indispensabili per la nostra tecnologia, in zone martoriate dell’Africa? O ancora dinanzi alle ripetute richieste di aiuto che provengono dalle ONG impegnate sul campo, e presenti sui nostri schermi tramite immagini di bambini neri, nudi e affamati che implorano la nostra compassione per il loro “sviluppo”? O davanti alle immagini dei corpi morti, oltre 20 mila negli ultimi venti anni, di quanti provano ad attraversare il Mediterraneo in cerca di un futuro diverso?
Come lo stesso regista denuncia, il film è costruito in modo tale da poter parlare ad un pubblico vasto, gente come noi, bianca e di classe media, che vive in Europa o negli Stati Uniti e che non riesce a capire cosa sia la sofferenza, l’oppressione e lo sfruttamento sistematico di questo dis/ordine mondiale. Se non quando arriva qualche contraccolpo da questi luoghi a noi sconosciuti.
A maggior ragione, dunque, in Italia il film va visto e discusso. Perché a differenza di altre nazioni europee, nel nostro paese non esiste (più) un dibattito pubblico sui fenomeni legati alla sfera post-coloniale o umanitaria, né sulle ambivalenti relazioni tra solidarietà internazionale, media, politica e mercato. Se gli anni ’80 e ’90 hanno visto in Italia l’ascesa delle ONG e una crescente popolarità delle azioni umanitarie, a partire dalla fine della Guerra fredda ci si è accorti che la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario rischiavano di cadere nelle trappole della cooptazione subalterna e della strumentalizzazione politica dei governi e dei donatori nazionali ed internazionali. Dalla fine degli anni ’90, inoltre, sono emerse le ambiguità e le contraddizioni di un intervento umanitario subordinato alle logiche della politica internazionale e talvolta anche degli interventi armati. E si è passati, come scritto da Gianni Rufini nel 2004, “dal boom alla disillusione”.
Tra l’altro, quel fermento culturale sorto intorno al mondo della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario ha subito una battuta d’arresto a partire dal 1999 e ancor di più dopo il 2001. Per diverse ragioni: da un lato, il ruolo autorevole delle ONG conquistato nel ventennio precedente, grazie alla loro capacità di influenzare la politica attraverso la comunicazione con le istituzioni e l’opinione pubblica, è entrato in crisi con l’arresto del movimento contro la globalizzazione liberista di Seattle e Porto Alegre – stroncato dalle violenze durante il G8 di Genova nel 2001 e dalla “guerra al terrore” seguita agli attentati dell’11 settembre a New York. Dall’altro lato, i tragici fallimenti prima politici e poi umanitari della comunità internazionale – in Bosnia, Ruanda, Kosovo, Afghanistan, Iraq, solo per citare i più noti – hanno sollevato polemiche e critiche radicali nei confronti dell’umanitario da parte di studiosi, ONG, attivisti, opinion makers e media.
Alla “sconfitta” è seguita la “beffa”: la denuncia diffusa verso il movimento umanitario, spesso visto solo come un tamponamento o un surrogato ai fallimenti della politica, tanto più che il legame con essa ne ha lentamente ma inesorabilmente minato l’ispirazione originaria. Come denunciato da Deriu e Marcon, si è passati dalla celebrazione del futuro luminoso che lo sviluppo avrebbe comportato alla necessità di ridiscutere le radici etiche e politiche di un’azione umanitaria sempre più ridotta a uno strumento paternalistico, per non dire colonialista, nei confronti del sud del mondo.
Il film evidenzia bene la necessità di non sottomettersi al “governo umanitario”. Le interviste ai leader, armati e non, dei diversi movimenti di resistenza che in Africa hanno lottato contro il colonialism lo dicono chiaramente. La lotta armata è scaturità anche dall’esigenza di prendere le distanze dalle logiche politico-economiche legate all’avanzare della globalizzazione liberista – dove persino i piani di aggiustamento strutturale imposti da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale vestivano i panni delle politiche compassionevoli e paternalistiche per rientrare in una “cornice umana e umanitaria”. Quella stessa cornice che, dopo il colonialismo, si è riproposta attraverso le logiche militari messe in atto da stati che miravano a rafforzare e ampliare il proprio dominio sul mondo attraverso l’uso strumentale di locuzioni come «intervento umanitario», «ingerenza umanitaria», «esportazione della democrazia».
Il messaggio di Concerning Violence e lo svelamento dei meccanismi di potere, fisico e simbolico, che il documentario propone calza a pennello con un periodo come questo, in cui le contraddizioni dell’umanitarismo sono tornate alla ribalta, a causa dei (o grazie ai) flussi di immigrati giunti nel nostro paese. In Italia, la politica e i media hanno spesso riassunto nel termine sbagliato, e fortemente degradante, di “clandestino” quello che bisogna considerare come uno dei sottoprodotti della globalizzazione: l’aumento del numero dei residenti in stati stranieri cui non è riconosciuto lo status di cittadino. Piuttosto che affrontare il tema delle migrazioni e dei diritti umani come una questione strutturale relativa alla cittadinanza (come Mezzadra ben evidenzia), politici e media nostrani hanno associato le rivoluzioni arabe, l’“invasione” dei “clandestini” e l’esasperazione della popolazione italiana, strumentalizzando a fini propagandistici ed elettorali lo stesso concetto di “emergenza umanitaria” e semplificando così, anche grazie al reiterato impiego di certe immagini, uno scenario complesso.
Nel conformismo narrativo che caratterizza i media italiani contemporanei, i temi legati all’emergenza umanitaria si riducono a rappresentazioni stereotipate, che alternano gli appelli alla compassione e alla carità, con le denunce razziste basate sull’allarme dell’emergenza securitaria. Coperture giornalistiche, fotografie, video sul web, campagne pubblicitarie divengono dispositivi che contribuiscono a rafforzare le relazioni asimmetriche tra ricchi e poveri, adulti e bambini, bianchi e neri, felici e disperati, carnefici e vittime, accentuando così la distanza tra “noi” e “loro” piuttosto che ridurla. Funzionando come dispositivo ideologico di «alta polizia» (così lo definisce Mesnard), l’immaginario umanitario ha contribuito alla costruzione e mantenimento del consenso verso un certo tipo di governance che regola i rapporti di cittadinanza facendo appello a valori, emozioni e sentimenti. Sostituendo la disuguaglianza con l’esclusione, trasformando la dominazione in sfortuna, articolando l’ingiustizia come sofferenza, esprimendo la violenza in termini di tragedia, la narrazione umanitaria si è consolidata sino al punto di diventare auto-evidente. Si tratta di un processo di sedimentazione semantica che ha effetti rilevanti nella sfera pubblica come nelle pratiche individuali.
Se guardato con le lenti della retorica securitaria e umanitaria oggi usata dai media per legittimare la “fortezza Europa”, Concerning Violence ci racconta qualcosa di importante non solo su “loro”, gli africani, i colonizzati ieri e i migranti oggi, ma anche sulla geografia morale del mondo, sul concetto di cittadinanza, sull’idea di essere umano.
Oltre ogni idea di “politicamente corretto”, questo cinema politico e radicale, si rivela un lucido invito all’autodeterminazione. Un invito a comprendere che, ieri come oggi, non si tratta di avere compassione per i più deboli, ma di combattere l’ingiustizia globale, lavorando in primis sulla nostra capacità di percepire, riflettere ed agire nel mondo. Per cambiarlo magari. O quanto meno per ricordare, in primis a noi stessi, che non è il migliore dei mondi possibili.