Stefano Cammelli ci introduce a The Chinese Mayor, quinto appuntamento con Mondovisioni, martedì 19 aprile a Kinodromo.
Partito Comunista Cinese, governo locale, amministrazione dello Stato, dinamiche dello sviluppo e contraddizioni nel rapporto coi cittadini: il bel documentario THE CHINESE MAYOR diretto da Hao Zhou sulla figura di un amministratore locale, il sindaco di Datong Geng Yanbo, entra immediatamente nel vivo. Ricostruisce, seguendo passo per passo alcune giornate della vita del sindaco, il complesso gioco di relazioni, generosità e meschinerie, pochezze ed eroismi che sono i protagonisti del miracolo cinese. Il documentario tocca un così alto numero di problemi che pare quasi miracoloso come sia riuscito a fotografarne la complessità intrecciata, assai più articolata della sterile contrapposizione con cui spesso l’Occidente riassume il quadro cinese: da una parte il progresso e l’economia e dall’altra l’assenza di diritti umani e di trasparenza di procedure. La formula, cinematograficamente non originalissima, s’ispira o in qualche modo risente di una procedura tipica nel mondo delle consulenze aziendali: prima ancora di ascoltare i protagonisti e chiedere loro che ne pensano dei problemi che devono affrontare, una scuola di pensiero preferisce seguire dal vivo l’azienda, cogliendo – attraverso telecamere e registratori – quello che avviene attimo per attimo. L’ipotesi, non errata, è che seguendo 24 ore su 24 un dirigente, un uomo chiave del luogo su cui si è chiamati a intervenire, si abbia una visione meno ideologica e più reale dei problemi dell’azienda. In alcuni ben noti case studies si è giunti a mettere (con il permesso dell’azienda) delle telecamere negli uffici dei dirigenti in modo da avere una registrazione precisa della giornata di lavoro e di come concretamente i problemi si presentano. Com’è noto una telecamera accesa è nelle prime ore un freno formidabile: colui che viene seguito modera le sue reazioni, cerca di assumere il comportamento giusto. Ma poi, col trascorrere delle ore e delle giornate, questa sorta di prudenza viene meno di fronte all’incalzare dei problemi e alla fine la situazione viene fuori con grande evidenza – nonostante le prudenze e le attenzioni dei protagonisti che cercano di mostrarsi ‘al meglio’.
THE CHINESE MAYOR diretto da Hao Zhou opera dunque in questo modo: segue la giornata del sindaco di Datong, Geng Yanbo, fiducioso che anche se l’osservatore non sa nulla della realtà che è chiamato a documentare saranno gli stessi eventi a manifestarsi davanti alla cinepresa e a mostrare almeno alcuni aspetti della propria complessità. Non c’è dubbio, in tal senso, che l’operazione sia riuscita al meglio: anche se lo spettatore ignora che Datong è una piccola città del nord di uno degli stati più poveri della Cina – lo Shanxi – e che Taiyuan è invece la capitale provinciale, più grande anche tre o quattro volte, anche se dunque non ha alcuna coordinata storica e geografica per comprendere esattamente cosa stia succedendo, e come si concluda in realtà il documentario, la messe di dati che gli vengono offerti è eloquente, affascinante, complessa.
Lo spettatore potrà scegliere a quale di questi problemi dare maggiore importanza. Se sottolineare il difficile rapporto, spesso conflittuale, che si viene a creare nella vita dello Stato cinese tra Partito Comunista e pubblica amministrazione; o, all’opposto, se preferire la complessità del rapporto tra il sindaco e la popolazione: curiosamente a contatto diretto continuo, come è difficile anche in una città occidentale. Ma che si preferisca osservare le distruzioni autoritarie o all’opposto scegliere la parte delle povere famiglie costrette a sloggiare da case che verranno abbattute, quello che Hao Zhou fotografa in modo mirabile è lo stato della pubblica amministrazione cinese. Ovvero questo difficile dibattersi tra gli obblighi di un’azione che ha urgenza e deve essere concreta (i problemi sono enormi e vanno superati se non si vuole rischiare un conflitto sociale) e le enormi difficoltà ambientali legate alla totale assenza di tutto. Hao Zhou fotografa in modo preciso e eloquente l’assenza dello stato, delle regole, delle procedure amministrative proprie della presente situazione cinese. L’azione dei protagonisti del documentario è omogeneamente calata in una primordiale lettura della realtà in cui tutti possono tutto e nessuno, in realtà, ha diritti o doveri. È il caos più completo: cittadini che hanno costruito abitazioni abusive si rifiutano di spostarsi come se sia un loro diritto occupare il suole pubblico e infischiarsene della collettività; impiegati che dovrebbero lavorare con il sindaco passano nel volgere di pochi istanti dal massimo della prepotenza al massimo dell’umiliazione: nessun regolamento, nessun preciso rapporto con il farsi dell’azione amministrativa. Gli stessi funzionari che si comprende stanno inconsciamente ostacolando il lavoro del sindaco diventano oggetto di furiose ramanzine che sembrano nascere da una storia autoritaria ma velleitaria. Non è l’eroismo di molti o il ‘galleggiare’ di tanti a colpire, quanto proprio questo carattere volontario e improvvisato dell’azione amministrativa. L’assenza di ogni percezione dello stato e della pubblica amministrazione nei cittadini. La confusione che regna nei personaggi che compaiono davanti alla cinepresa, del tutto incapaci di comprendere le differenze esistenti tra partito, pubblica amministrazione, organi di sicurezza, esercito, imprese costruttrici… come se lo stato sia nel suo complesso un magmatico ‘altro’, feudale e lontano, quasi barbarico. Uno stato a cui si può implorare clemenza, fare ricatti, furbizie da città sottosviluppata… il ricchissimo campionario dei comportamenti di mondi – non solo cinesi – per cui lo stato non esiste. Esiste solo la famiglia, il proprio interesse e oltre questa soglia tutto può essere e di tutto ci se ne infischia.
Il documentario, dopo avere quasi sommerso lo spettatore con questa continua esibizione di furbizie e di arroganze che esprimono una concezione del mondo priva di ogni mediazione tra il proprio interesse familiare e un generico e lontano potere, lascia nello spettatore la domanda attonita e senza risposta di come abbia potuto la Cina, in questo caos di procedure non scritte e di protocolli mai pensati, portare a termine una rivoluzione così straordinaria, in così poco tempo. Conduce lo spettatore di fronte all’enigma stesso della presente situazione cinese. Forse il partito sbaglia, forse no. Ma spesso l’unico spiraglio di razionalità sembra venire dai suoi dirigenti, prestati o meno alla pubblica amministrazione. Con i suoi clamorosi errori e i suoi peccati anche molto gravi è il Partito Comunista Cinese – non altri – ad avere costruito il presente della Cina e ad averla lanciata verso il futuro. E, tuttavia, questa impresa epica che è iniziata pochi anni prima della caduta del muro di Berlino e che ha portato gran parte della Cina a sorpassare paesi dell’Europa orientale che sembravano allora avanti anni luce, pure – si diceva – questa impresa epica non ha saputo ancora sciogliere il nodo più importante per il futuro e per il paese. Il ruolo dello stato, della legge, dell’amministrazione.
Hao Zhou fotografa il caos, pone lo spettatore di fronte al continuo intrecciarsi di situazioni provocatorie e impossibili. Forse la Cina non è democratica, forse lo è troppo. Ma prima ancora di parlare di democrazia occorre costruire lo stato, la pubblica amministrazione, le leggi e il loro rispetto. O, all’opposto, partire da una profonda riforma democratica che sia in grado di generare rispetto e distanza dallo stato e dalla pubblica amministrazione. In altro parole: il conflittuale presente cinese, dove ogni innovazione e ogni progresso è in gran parte dovuto all’autoritaria gestione della pubblica amministrazione compiuta dai dirigenti del partito. Sicché il dilemma pare senza soluzione: è lo stato autoritario che mi permette di progredire. Ma la gestione autoritaria dello stato impedisce di progredire alla società nel suo complesso.
Un bel problema, non facile da risolvere.