Dov’eravamo rimasti?
Vi avevamo raccontato di come fosse esplosa la serata del 31 marzo a tema stand up comedy.
Quello che non sapete, però, è che la serata del 28 aprile ha incendiato il palco del LOFT nel vero senso della parola. No, nessun incendio reale, parliamo del calore del pubblico. Se la prima serata era stata una scommessa per gli stand up comedian, per il pubblico e per il LOFT, la seconda serata non ha disatteso le aspettative. Cambia la formazione, ma la squadra dei comedians va a segno comunque.
Vi avevamo proposto le interviste di alcuni stand up comedians. Oggi è il turno degli ultimi rimasti, non per importanza. Stiamo parlando di Raymond Solfanelli, Brando Sorbini e Alessandro Ciacci.
> Raymond! Da illustratore e disegnatore a stand up comedian. Com’è avvenuto questo passaggio dalle vignette ai monologhi? Le tue vignette possiedono già uno spirito stand up. Come sei riuscito ad applicare questo tuo stile ai tuoi monologhi satirici?
Se fossi in me in questo momento potrei rispondere che il disegno e la scrittura per quanto mi riguarda sono due linguaggi differenti che da qualche anno utilizzo parallelamente per leggere e commentare la realtà che mi circonda in chiave comica e paradossale, due mezzi diversi per dare forma al mio senso dell’umorismo grottesco e surreale ma in realtà in questo momento sto inalando un boccione di trielina per cui mi dissocio da quanto scritto sopra.
> La tua mimica facciale esagerata sembra riavvicinarti alle tue vignette satiriche e “cartoon”. È una cosa voluta, o fa semplicemente parte del tuo modo di concepire lo stand up?
Credo che la mimica facciale sia uno dei tanti strumenti che nella cassetta degli attrezzi di un comico possono essere funzionali a sottolineare una determinata battuta o comunque l’ intenzione comica di un determinato passaggio all’interno di un pezzo. Mi piace molto la commedia dell’arte dove le espressioni sono necessariamente esagerate in virtù della presenza della maschera e per finire mi piace molto Gianni del gruppo comico dei Brutos quello che prendeva sempre gli schiaffi e che considero un po’ il mio mentore sia come attore sia a livello esistenziale. Impareggiabile. Secondo solo ad Andreotti quando gli venne quel mezzo coccolone in diretta dalla Perego. Lì eravamo ai livelli di un nuovo Buster Keaton.
> Tocca a te, Brando. In che misura il tuo modo di fare stand-up si può ritenere diverso da qualsiasi altro comedian?
Non so se quello che faccio si può ritenere diverso da qualunque altro comico, è ancora prestissimo per dirlo e non spetta certo a me questo tipo di valutazione. Ti posso dire che ho una formazione da critico cinematografico per cui forse, a un certo punto, le recensioni non mi bastavano più e alcune digressioni erano più indicate per dei monologhi dal vivo piuttosto che essere lette su un blog o su una rivista. Uno che mi piace molto, anche se non fa stand-up, nell’uso del citazionismo pop in chiave umoristica (e che spesso crea dei lodevoli affreschi generazionali) è il fumettista Zerocalcare. Lui è un nerd che stimo molto.
> Quanto di personale c’è nei tuoi monologhi? Prendi spunto dal mondo attorno o anche dal tuo vissuto personale?
Dipende cosa intendi per “personale”. Per me l’arte prevede sempre e per forza la trasformazione del tuo punto di vista e del tuo vissuto in qualcosa che apparentemente non sembra c’entrare nulla con la vita di tutti i giorni. In fondo, persino un film ambientato in una galassia lontana lontana parla un po’ di noi. Per cui alla base c’è sempre tanto di personale in quello che dico. Facendo monologhi ad argomento tendenzialmente parto da un punto di vista, da un’idea, e cerco di snocciolarla argomentando e cercando di stare attento a non scivolare nello spiegone. Cosa che probabilmente invece ora sto facendo.
> La stand-up comedy è nuova in Italia. Qual è il tuo pensiero in merito a questo nuovo genere di comicità nel nostro Paese?
Ti avverto, hai aperto il vaso di Pandora. La stand-up comedy appare nuova in Italia per due ragioni. La prima è legata alla nostra cultura, a ciò che siamo abituati a intendere come comico. La comicità italiana nasce dalla commedia dell’arte, da Arlecchino e Pulcinella. Quando nacque l’avanspettacolo negli anni Trenta i comici non portavano se stessi sul palco, ma personaggi. Si pensi a Totò, Aldo Fabrizi, i fratelli De Filippo. Erano maschere. Totò lo è diventato al punto che ormai è imprescindibile a Napoli durante il carnevale. Con l’arrivo della commedia all’italiana la situazione non cambiò poi tanto. Anche Gassman, Mastroianni, Sordi e Tognazzi erano grandi attori che interpretavano ruoli. Poi ogni tanto spuntava fuori un Walter Chiari ma veniva ingiustamente dimenticato. Lo stesso dicasi anche per i contenitori comici di Serena Dandini, Gino e Michele e Gialappa’s Band di qualche decennio dopo. Si pensi a Zelig, Mai dire Gol e L’Ottavo Nano. Son tutti programmi con personaggi. Grandissimi, eh. Ma non c’è spazio per i monologhisti. Al punto che Daniele Luttazzi si dovette inventare il professor Fontecedro pur di andare in onda. Per cui a parte qualche caso isolato (Benigni, Grillo, Sabina Guzzanti, Luttazzi) e comunque sempre influenzato dalla credenza tutta italiana che l’unica satira possibile sia quella politica, cioè battute sull’attualità (cioè sui politici e non sulla politica), va da sé che l’idea stessa del comico come persona che sale sul palco e dice quello che pensa in modo divertente senza neanche indossare una parrucca e gridare “Chi è Tatiana?”, è stata per molto tempo inconcepibile. E qui arrivo alla seconda ragione: la stand-up comedy prevede massima libertà d’espressione. In un paese come l’Italia, dove i partiti hanno sempre tenuto ben stretti i loro artigli su qualunque canale televisivo, sia pubblico che privato, come pensi sia anche solo immaginabile un Louis CK nostrano? Detto questo, sono molto contento di questa new generation di comici che grazie a internet hanno scoperto i comedian stranieri. E, ti dirò, abbastanza speranzoso. E vorrei approfittarne per ringraziare il team di ComedySubs ora ComedyBay, perché è solo grazie a loro se oggi siamo qui a parlare di stand-up. Cercateli su Google e capirete il perché.
> Caro Alessandro, sei un giovane comedian ma assomigli tanto a un professore pronto a punire gli studenti poco attenti. C’è qualche aspetto dei tuoi monologhi che senti di dover perfezionare o su cui senti di puntare l’attenzione per suscitare la risata?
Ti ringrazio per il “professore”. Non lo sono e ad essere onesti non ho neppure una laurea, ma l’immagine coglie nel segno di un certo sadismo che è una parte importante di me e della mia scrittura… Gli aspetti da perfezionare ci sono e ci saranno sempre. Il mio metodo prevede la stesura di un monologo che poi viene testato una prima volta sul pubblico. Successivamente intervengo in termini di revisione di battute o qualche passaggio migliorandolo. Nuovamente proposto al pubblico, procedo così fino a quando il risultato non lo reputo soddisfacente, ovvero fino a quando il monologo funziona e soprattutto fa ridere dall’inizio alla fine. Diciamo che al momento un monologo raggiunge la sua forma definitiva dopo due o tre revisioni… Mi piace pensare al monologo e al suo processo evolutivo come ad un’arma bianca che per essere efficace va ogni volta affilata. Per quanto riguarda ciò su cui punto per suscitare la risata… il discorso è più complicato, perché ogni pubblico è diverso e soprattutto ogni spettatore è diverso. Diciamo che il mio obiettivo è scrivere e interpretare cosa che hanno “buone possibilità a priori” di far ridere: che significa battute ben scritte, situazioni e spunti originali (dunque il più possibile inediti e sorprendenti), e poi c’è il “come” queste cose le propongo durante l’esibizione, il mio personale stile. Questi gli ingredienti base: se il loro livello è soddisfacente, la risata c’è.
> Questa non è la tua prima (né sarà l’ultima) performance pubblica. Hai qualche aneddoto divertente da raccontarci avvenuto durante la scrittura dei tuoi monologhi o durante l’interpretazione davanti al tuo pubblico? Ti è capitato che qualcuno non ridesse alle tue battute, si sentisse offeso e (peggio) se ne andasse stizzito dalle tue parole? Come hai reagito?
Divertente, per me, è stato quando i miei genitori hanno assistito per la prima volta ad una mia serata: non avevano minimamente idea del tipo di comicità che coltivassi, e tra oscenità, ingiurie, deviazioni sessuali e altre cose che mi hanno sentito dire, devono aver passato un bel quarto d’ora. Ho delle battute su una mia ipotetica madre, cose irreali, che se vere non le farebbero fare una gran figura: ebbene, dopo uno spettacolo l’ho sentita giurare a chi conosceva che in realtà lei non ha mai fatto o detto niente di simile. Ed era evidentemente preoccupata. Per il resto, sì, capita che non ridano: può succedere che dica una battuta che trovo irresistibile, ma non suscita nessun effetto. Oppure capita che la battuta o il pezzo funzionano ma non fanno ridere per questioni “tecniche” legate al performer. Diciamo che con l’esperienza è un problema che tende quasi a scomparire, perché la pratica permette di prendere sempre più confidenza con il pubblico e di affinare la tecnica imparando anche “trucchi del mestiere”. E’ come in palestra, più esercizio uguale più muscoli. O almeno, mi dicono che sia così… No, nessuno si è mai alzato ed è andato via. In realtà mi piacerebbe che succedesse, ma temo che rimarrò deluso. Non ho carattere comico che segue lo scandalo per lo scandalo, l’osceno spinto al limite della sopportazione, dunque da risultare a tal punto indigesto da spingere qualcuno a uscire. Oltretutto come stile mi rifaccio molto a quello degli autori satirici classici, dunque i “fustigatori” dei costumi e della società, ma è fondamentale che prima di tutto prenda me stesso come bersaglio della mia ironia. Se non lo facessi non sarebbero più monologhi comici ma i sermoni di un prete.
> Se foste un colore, che colore sareste e perché?
Raymond: Senza ombra di dubbio (e non da oggi) il Greenery. Non a caso è la nuance eletta da Pantone a colore dell’anno 2017. Acceso, vivace, foriero di una primavera destinata a durare tutto l’anno si sposa bene con tinte neutre come il grigio, pastello come il rosa e l’azzurro, intense come il rosso tutti colori che il mio corpo possiede già di suo in zone molli differenti.
Alessandro: Più che un colore mi identifico con un modo di “usare” e riflettere i colori: il caleidoscopio. In cui i colori prendono forme geometriche ma variabili e in continuo movimento.
Brando: Nero. Come i miei uomini.