Per parlare di video game, non si possono mostrare i video game. È quanto raccontano Alessandro Redaelli, regista, e Ruggero Melis, autore, parlando del loro nuovo film documentario Game Of The Year, vincitore del Biografilm Festival 2021. Per la sua natura interattiva e la logica di fruizione attiva, anziché passiva come accade invece con il cinema, è impossibile spiegare un videogioco a qualcuno. Bisogna giocarlo. E nell’interattività sta anche il fascino creativo di questo medium, che cambia a seconda di chi lo fruisce. Proprio con l’idea di spiegare un mondo in crescita, quello del video game in Italia, anche a chi è completamente digiuno di videogiochi, gli autori di Funeralopolis – A Suburban Portrait (2017) hanno trascorso quasi tre anni immersi nell’ambiente del gaming, arrivando all’intuizione che per farlo fosse necessario mostrare le persone che ne fanno parte. Il risultato è un ritratto sorprendente di una generazione, quella dei millennial, che cerca disperatamente di esprimersi in un mondo che cambia sotto al suo naso a velocità imprevedibili. Della varietà umana che emerge in GOTY – dagli sviluppatori indipendenti e sognatori di Yonder al content creator e quasi guru Michele “Sabaku no Maiku” Poggi, passando per Matteo Corradini e Diego Sacchetti, creatori di The Textorcist – rimangono impresse le inquietudini e le insicurezze che accompagnano qualunque processo creativo, soprattutto nel caso di forme d’arte, come quella del video game, che debbano confrontarsi con la precarietà del mondo del lavoro, cercando intanto di guadagnare legittimità sociale. E così il gioco diventa un pretesto per guardarsi allo specchio, spiando dal buco della serratura di gamer, streamer, sviluppatori, per rivedere infine noi stessi.
Ho parlato con Alessandro e Ruggero di pregiudizi, contraddizioni, sessismo e nuove prospettive nel mondo del gaming.
Com’è iniziato tutto?
A.R. Abbiamo iniziato nel 2018 a girare per fare ricerca. Io e Daniele (Fagone, il terzo autore del film) eravamo andati a vedere alcuni tornei di eSport per capire come girassero le cose nell’ambiente. Non avevamo ancora trovato il linguaggio e la camera giusta, ma sapevamo di voler fare un film che raccontasse il mondo dei videogiochi in Italia.
Perché i videogiochi?
R.M. Eravamo alla ricerca di un nuovo film, Alessandro stava iniziando a collaborare con VR Italia, una rivista italiana sui videogiochi in realtà virtuale. Grazie a questa realtà ci siamo imbattuti nelle demo di videogiochi fatti da italiani, e nonostante tutti noi fossimo appassionati, non ci era capitato spesso di incontrare prodotti italiani. Siamo partiti quindi dall’idea di fare un film quasi enciclopedico, che raccontasse come funziona questo mondo in Italia. Era affascinante poi focalizzarci sull’industria italiana non ancora florida e ricchissima, ma raccontare qualcosa che sta crescendo e fa fatica a crescere.
A.R. Non a caso le storie che abbiamo incluso nel film sono per lo più quelle di chi sta cercando di farcela. Piuttosto che incontrare personalità affermate abbiamo preferito mostrare percorsi in crescita a livello narrativo, di chi sta un po’ meno sotto ai riflettori e sta cercando di riuscire attraverso il videogioco. La scelta dei videogiochi è venuta anche perché l’informazione attorno a questo tema scarseggia, invece i videogiochi sono tanti, e i videogiocatori tantissimi.
Quello che salta agli occhi è lo spaccato di una generazione, la nostra, che cerca di farcela tra alti e bassi, aspettative e fallimenti, e il film rivela così una realtà molto più simile a quella di chiunque, a differenza di quanto si può pensare.
R.M. Abbiamo iniziato quasi col cappello da antropologi, con il proposito di andare a vedere com’è questo mondo strano, ma ci siamo resi presto conto che molti dei personaggi che sono nel film assomigliavano a noi. Yonder, ad esempio, gruppo di sviluppatori di Roma, è quanto di più vicino ci sia nell’industria videoludica a quello che facciamo noi con il cinema.
A.R. Sì, è più un film sulla nostra generazione in realtà, e i protagonisti sono ragazzi che stanno cercando di sfruttare il linguaggio che hanno per raccontare qualcosa, per rimanere in qualche modo nella microstoria del mondo. E il percorso è simile per tutti, per questo credo che il film possa arrivare a molti.
È anche un’analisi di come le vite dei millennial si debbano adattare a un mondo che cambia, e quello del videogioco è un ambiente che fa fatica ancora ad imporsi come serio e a trovare una legittimazione, con tutte le sue professionalità. Un po’ come succede per gli influencer, gli youtuber, anche se ancora più di nicchia.
A.R. Se già è difficile dire “mamma, da grande voglio fare il regista, o il critico”, immagina quanto deve essere difficile fare la stessa cosa quando lavori nell’ambito dei videogiochi che è molto più nascosto, e che anche persone giovani e di cultura interessati alle altre arti non conoscono e non hanno interesse ad approfondire. Non è legittimato dalla società.
Secondo voi perché è così poco attraente alla massa?
R.M. C’è un’annosa questione di accessibilità, che in realtà è anche il motivo che ci ha spinto a fare il film e a farlo in questo modo. Il videogioco, a differenza del cinema e di altre arti, è molto più difficile da spiegare a parole e da spiegare all’esterno. Finché non ne fai esperienza diretta rimani sempre fuori dalle dinamiche del gioco. Per questo il film spiega poco del videogioco in sé, ma cerca di legittimarlo mostrando che le persone che gravitano intorno a questo mondo sono uguali a quelle di qualsiasi altro ambiente, che sia il mondo del cinema o il tuo ufficio o il tuo condominio.
A.R. O meglio, dipende, perché ad esempio al gioco sul mobile giocano tutti, anche mia mamma dice “non gioco ai videogiochi” e poi magari passa tre ore su Candy Crush. Il problema è che la differenza tra questi giochi, che sono a tutti gli effetti videogiochi, e quelli tradizionali più creativi e complessi è come quella che c’è tra un cortometraggio d’animazione ultra pop e un film di Herzog.
R.M. Sì, dire videogioco è come dire audiovisivo: al suo interno trovi il cinema, la televisione, l’intrattenimento. Così come il videogioco ha al suo interno le grandi opere narrative, il sudoku, il gioco mobile eccetera.
Chi non è appassionato spesso colloca i videogiochi in una sfera ludica e fine a se stessa, è difficile cogliere il lato creativo che c’è dietro. Quanto c’è che non si vede, qual è il livello medio del videogioco? È un ambiente autocosciente che riflette su se stesso e oppure no?
A.R. È un po’ come chiedersi la stessa cosa con il cinema: la qualità media del cinema mainstream è bassa, e una situazione simile si ritrova nel videogioco. La differenza è che il cinema ha un sottobosco di opere sperimentali e ricercate che vengono legittimate e sostenute attraverso i festival, mentre per il videogioco questo non è ancora successo. È un mondo pieno di prodotti di una certa levatura, il problema è che rimangono più nascosti.
Cosa avete scoperto di nuovo su questo mondo?
R.M. Non ho scoperto nulla da zero, ma ho capito gli eSport. Vedere in azione Reynor che gioca, e vedere il livello di abilità richiesto è impressionante, la velocità con cui immette input durante la partita è sorprendente.
A.R. La cosa che mi ha sconvolto di più è il reazionarismo della community, che è prevalentemente composta da uomini molto giovani, bianchi, etero, e in cui di conseguenza si respira un’aria di sessismo, omofobia, razzismo, propria della nostra epoca ma accentuata dall’ignoranza di alcuni personaggi dell’ambiente. Anche perché se sei appassionato anche di cinema o di letteratura hai degli strumenti per leggere il mondo, se invece ti interessi solamente ai videogiochi non li hai, non basta. Il pubblico medio è molto indietro.
R.M. Abbiamo riscontrato questo problema direttamente, nella selezione di persone da raccontare che presenta poche donne. Nel mondo della programmazione creativa in Italia, ce ne sono pochissime. Questo è chiaramente un sintomo di una chiusura della community. Anche perché le donne non dovrebbero essere considerate la diversità, ma nel mondo dei videogiochi è così.
L’unico personaggio femminile presente in Goty si pone a un certo punto il problema della sua oggettificazione nel lavoro. Quanto conta il sesso nei videogiochi?
R.M. Purtroppo molto. Tante polemiche che scoppiano nella community sono legate in maniera bizzarra al tentativo di de-sessualizzare alcuni personaggi come Lara Croft, nata come personaggio pin up con proporzioni poco realistiche, che è stata di recente ridisegnata per essere più simile a un essere umano. Anche in questo caso non sono mancate le polemiche.
A.R. Il problema è che di attivismo non se ne fa molto in questo ambito, i giornali di settore spesso lavorano di clickbait sfruttando le polemiche ed evitando di prendere posizione. È un peccato, perché questo ambiente ha la capacità di plasmare la mente di chi fruisce dei videogiochi e delle piattaforme. Nel lungo periodo è possibile farlo creando giochi sempre più inclusivi, nel breve periodo però è un lavoro che possono fare gli influencer, quindi giornalisti, streamer e youtuber.
Perché secondo voi è un mondo che attira una fetta così specifica di persone?
A.R. Il discorso è diverso, è vero che attira questa fetta di persone perché storicamente siamo abituati a pensare ai videogiochi come una faccenda da uomini, cosa che ovviamente non ha alcun senso. È uscita una ricerca pochi giorni fa che diceva che il 60% delle donne che gioca online non usa un nome femminile per paura di eventuali molestie. Ci sono tantissime videogiocatrici che hanno paura ad esporsi perché appena viene detta una cosa vagamente sociale o critica nei confronti di questo mondo parte la cosiddetta shitstorm. A maggior ragione, chi ha voce in capitolo dovrebbe fare in modo che questo non accada. Oltretutto le videogiocatrici sono il 40% del totale, quindi non esattamente una minoranza.
R.M. Storicamente il contenuto dei videogiochi, che erano fatti da uomini, era più indirizzato a un immaginario maschile, perché originariamente l’accesso alle conoscenze che ti permetteva di fare un videogioco era appannaggio maschile, d’altronde i primi videogiochi sono nati in qualche università di ingegneria a prevalenza maschile. Tutto il mondo della tecnologia per qualche assurdo motivo è associato al mondo maschile.
Uno dei tanti pregiudizi che si ha rispetto a chi gioca ai videogiochi è che ci sia un’immersione totale nella dimensione virtuale, mentre un aspetto che emerge dal vostro film sono proprio le relazioni concrete che si creano tramite i videogiochi.
A.R. Quello della tecnologia è solamente uno strumento in più. L’esempio più chiaro forse è quello di Tinder: non si tratta di una cosa virtuale come dicono alcuni, è uno strumento attraverso ti senti un paio di volte con una persona e poi ti incontri senza l’imbarazzo di fermarsi per strada come dei pazzi. Stessa cosa vale per il videogioco, io vedo Ruggero tutti i giorni ma ci gioco anche insieme, con lui come con altri amici. È semplicemente un modo in più per stare collegati, cosa che durante questa pandemia ha dimostrato di riuscire a rafforzare i legami.
R.M. Io sono un grande sostenitore dell’annullamento della divisione tra virtuale e reale, che sicuramente è giusta ma deve andare a sparire. A volte abbiamo l’impressione che un contatto online equivalga a parlare con un’intelligenza artificiale, ma in realtà dall’altra parte c’è sempre una persona. A volte si creano dei rapporti che sì, forse sarebbe meglio che a un certo punto si attualizzassero dal vivo, ma è anche vero che esistono ragazzini che giocando online si fanno amici dall’altra parte del pianeta, e chi può dire se quel legame è più o meno valido di quello con l’amico del calcetto?
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
R.M. Stiamo lavorando a un film su commissione di cui non possiamo dire niente, su un nuovo documentario di cui non possiamo dire niente, tre film di finzione e una serie. Quello che possiamo anticipare è che uno di questi progetti nascerà dal materiale che non è stato incluso in Goty, ma che aveva la stessa importanza e dignità delle storie che abbiamo scelto per il film. Servirà per analizzare ancora più in profondità l’ambiente dei videogiochi.
A.R. Tanti progetti, forse troppi, ma sicuramente dopo un anno e mezzo abbiamo voglia di ritornare a lavorare.
Carlotta Centonze